Quando la vendita di Antonioli e Bombardini frutta mille euro
di Marco Liguori e Salvatore Napolitano
Altro che Cristian Chivu, o John Carew, o Alessandro Amantino Foioli
più brevemente chiamato Mancini. La mossa estiva più azzeccata
della squadra giallorossa non è stata questo triplice acquisto:
fondamentale è stato aver convinto Capitalia a concedere una fidejussione
da 30 milioni di euro. Essendosi legato al potente gruppo bancario, Franco
Sensi si è coperto le spalle sul versante della Federcalcio: come
è ormai noto a tutti, il presidente della Figc, Franco Carraro,
è anche il numero uno di Mcc, banca d'affari della galassia Capitalia.
Ma, avendo chiesto l'aiuto di Cesare Geronzi, Sensi ha fatto il primo
passo verso la porta di uscita di Trigoria, cui verrà accompagnato
proprio dal numero uno di Capitalia. Non è un mistero che, alla
guida della Roma, Geronzi gradirebbe la Lamaro Costruzioni, della quale
sono a capo i fratelli Pierluigi e Claudio Toti. Il primo, guarda caso,
siede nel consiglio di amministrazione della banca romana, e il suo gruppo
è entrato a far parte del nucleo dei soci forti, riuniti nel patto
di sindacato. L'addio di Sensi appare inevitabile anche perché
gli ultimi conti della Roma sono disastrosi: beninteso, non c'è
nulla di sostanzialmente diverso rispetto all'anno precedente. Solo che
adesso se ne sono accorti tutti: e il motivo è semplice. La società
giallorossa non ha più fatto quel massiccio ricorso alle plusvalenze
incrociate e fittizie, che avevano tappato le falle nell'esercizio chiuso
al 30 giugno 2002. Con quell'espediente, che provocò benefici sul
conto economico per 95,38 milioni di euro, grazie alla vendita di 20 giocatori
semisconosciuti perlo più a squadre di serie B, la Roma chiuse
con un utile risicato di circa 787mila euro. Senza quell'espediente, il
bilancio al 30 giugno 2003 è andato in rosso di 104,7 milioni.
Per capire come sono cambiati i tempi, basta pensare a due cessioni: quelle
di Francesco Antonioli alla Sampdoria e di Davide Bombardini alla Salernitana.
In tutto hanno fruttato alle casse giallorosse 1.032 euro: la miseria
di due milioni delle vecchie lire. Ma il buco dell'ultimo esercizio sarebbe
stato ben superiore se la società non si fosse avvalsa della legge
27 del 2003, più comunemente nota come legge «spalma perdite«:
è quell'obbrobrio contabile che permette di svalutare il patrimonio
calciatori o, per dirla in termini più corretti, il valore dei
diritti alle loro prestazioni, ripartendo il minor valore in dieci rate
annuali. Ma l'11 novembre prossimo l'Unione europea aprirà la procedura
di infrazione contro l'Italia, ritenendo che lo «spalma perdite»
violi sia la normativa sugli aiuti di stato che quella relativa alla redazione
del bilancio, secondo quanto disposto dal Codice Civile e dalla Quarta
direttiva Cee.
Sorgerebbero ulteriori problemi in casa giallorossa: applicando la legge
27 la Roma ha svalutato il patrimonio calciatori per 133,6 milioni. Come
ha ammesso la stessa società a pagina 32 del suo bilancio l'adesione
alla legge 27 «ha determinato un beneficio complessivo lordo sul
risultato di esercizio e sul patrimonio netto di 28,665 milioni; ovvero
di 27,447 milioni al netto dei relativi effetti fiscali».
Ma c'è un problema aggiuntivo. La legge ha consentito alla Roma,
e alle altre che ne hanno usufruito, ossia Inter, Lazio, Milan e Parma
solo per citare le più importanti, di iscrivere 120,283 milioni
nell'attivo, derivanti appunto dalla svalutazione operata. Ma è
un valore assolutamente fittizio. Facciamo un piccolo esempio per capire
meglio la sostanza della legge. E' come se, avendo acquistato delle azioni
a 1.000 euro ed essendosi accorto che il loro valore è diminuito
permanentemente a 200 euro, un risparmiatore potesse dire di detenere
nel suo portafoglio non solo titoli del valore di 200 euro, ma anche titoli
svalutati del valore di 800 euro. Peccato però che quegli 800 euro
si siano volatilizzati, avendo fatto pertanto diminuire il patrimonio
del risparmiatore. Se alla chiusura della procedura la Commissione europea
dovesse bocciare definitivamente la legge 27 quei 120,283 milioni iscritti
nell'attivo, grazie all'ineffabile normativa, rappresenterebbero un buco
secco di bilancio.
Lo ricorda la società di revisione Grant Thornton, chiamata a certificare
il bilancio giallorosso: senza la sua applicazione sarebbe emerso «un
aumento della perdita di esercizio di circa 120 milioni». Com'è
ovvio, anche un buco del genere dovrebbe essere immediatamente ripianato:
per sua causa infatti il capitale netto diventerebbe addirittura negativo.
Tornando ai conti 2002-2003, il fatturato si è attestato a 134,09
milioni: per ogni euro incassato la Roma ha speso perciò un euro
e 78 centesimi. Un inevitabile peggioramento si è manifestato sul
versante finanziario, perché il costante predominio dei costi sui
ricavi genera più debiti che crediti. Al 30 giugno 2003 i primi
superavano i secondi di 195,36 milioni: in vecchie lire si tratta di 378
miliardi. Con buona pace del presidente Sensi che l'altro ieri ha dichiarato
che «le società pagano l'Irpef al 100% e molti club sono
costretti a ricorrere a molti sotterfugi. Io non li faccio».
I debiti più ingenti erano verso Erario, Enti previdenziali e tesserati:
54,43 milioni per ritenute Irpef sugli stipendi dei calciatori, 13,93
per Iva, uno per contributi e 44,13 per stipendi. Come abbia fatto la
società a superare l'esame di iscrizione al campionato, anche prescindendo
dalla vicenda estiva delle false fidejussioni, resta un mistero. Per tappare
qualche falla, la Roma non ha usufruito solo della legge «spalma
perdite»: ha aderito, sempre per smentire il presidente, al condono
fiscale e alla sanatoria con la quale ha definito le controversie relative
alla tassazione ai fini Irap delle plusvalenze derivanti dalla cessione
dei calciatori.
E nei primi mesi del 2003, l'azionista di maggioranza, ossia la Roma 2000
srl, a sua volta posseduta interamente da società del gruppo Sensi,
aveva rinunciato in via definitiva alla restituzione di un finanziamento
infruttifero di 60 milioni. Nel giugno successivo si è poi accollata
debiti verso la Banca di Roma per 10 milioni. Queste misure hanno soltanto
consentito alla barca di non affondare subito, procrastinando a tempi
più propizi l'inevitabile ridimensionamento dei costi. Non stupisce
allora la diagnosi della Grant Thornton, emessa il 16 ottobre: «Non
siamo in grado di esprimere un giudizio sul bilancio d'esercizio al 30
giugno 2003». La società di revisione ha così argomentato:
ci sono una «significativa perdita», una «situazione
di tensione finanziaria», la «necessità di un'operazione
di ricapitalizzazione di maggiore entità rispetto a quella indicata
per 37,5 milioni», il rischio di un «aggravio al conto economico
di circa 11 milioni» nel caso in cui la società non sia in
grado di versare entro il prossimo 3 novembre un debito con il Fisco.
E il primo trimestre 2003 è cominciato con lo stesso andazzo: al
30 settembre la perdita è ammontata a 25 milioni. Si va sempre
avanti al ritmo di poco più di 8 milioni di buco mensile.
(Fonti:
www.ilmanifesto.it)
|